IL TRIBUNALE

    Premesso  che  il difensore di Fall Macode, imputato dei reati di
cui agli artt. 171-bis e ter legge 22 aprile 1941, n. 633 e 648 c.p.,
ha  chiesto la sospensione del processo ai sensi dell'art. 5, secondo
comma legge 12 giugno 2003, n. 134.

                            O s s e r v a

    L'art. 5 legge 12 giugno 2003, n. 134, stabilisce che l'imputato,
o  il  suo  difensore  munito  di  procura  speciale,  ed il pubblico
ministero,  nella prima udienza utile successiva alla data di entrata
in vigore della legge, possano chiedere l'applicazione della pena, ai
sensi  dell'articolo  444  c.p.p., come novellato dalla stessa legge,
anche  nei  processi penali dei quali sia in corso il dibattimento ed
anche  se  sia  decorso  il  termine previsto dall'art. 446, comma 1,
c.p.p. La facolta' e' concessa anche quando sia gia' stata presentata
tale  richiesta,  ma  vi  sia stato il dissenso da parte del pubblico
ministero  o la richiesta sia stata rigettata da parte del giudice, e
sempre  che  la  nuova  richiesta non costituisca mera riproposizione
della  precedente.  Su  richiesta  dell'imputato  il  dibattimento e'
sospeso  per  un  periodo  non  inferiore a quarantacinque giorni per
valutare  l'opportunita'  della richiesta e durante tale periodo sono
sospesi i termini di prescrizione e di custodia cautelare.
    Il  giudicante  dubita  della  legittimita'  costituzionale della
norma per contrasto con gli artt. 3 e 111 della Costituzione.
    Quanto  all'art. 3,  ed in ispecie al principio di ragionevolezza
che    per   consolidatissima   elaborazione   della   giurisprudenza
costituzionale da esso viene dedotto, la norma non appare ragionevole
a)  perche' consente di formulare la richiesta anche oltre il termine
fissato  dall'art. 446,  primo  comma c.p.p.; quanto all'art. 111, il
contrasto sussiste b) perche' impone, su richiesta dell'imputato, una
sospensione   di   quarantacinque  giorni,  fissando  il  termine  di
decorrenza   dalla  prima  udienza  utile  successiva  alla  data  di
pubblicazione della legge.
    Sub  a.  Il  cosiddetto  patteggiamento  e'  stato introdotto nel
codice  di  rito  vigente  per  determinare un effetto deflattivo del
processo  penale: si e' concesso alle parti di concordare la pena per
evitare  i  costi in termini di tempo, di risorse umane e finanziarie
che  il  rito  ordinario  comporta;  in  cambio  di  tale  risparmio,
l'imputato  gode  di  uno sconto di un terzo della pena. La finalita'
indicata  e'  stata  ribadita anche dalla corte costituzionale con la
sentenza  n. 129 del 1993, in cui si afferma, con riferimento ai riti
speciali,  che  «l'interesse dell'imputato a beneficiare dei vantaggi
conseguenti  a  tali giudizi in tanto rileva, in quanto egli rinunzia
al  dibattimento e venga percio' effettivamente adottata una sequenza
procedimentale  che consenta di raggiungere l'obiettivo di una rapida
definizione  del processo» deducendone la legittimita' costituzionale
della   preclusione  dei  riti  speciali  in  caso  di  contestazione
suppletiva.  Se  questa e' la finalita' dell'applicazione della pena,
lo  sbarramento  previsto  dall'art. 446 primo comma e' necessario al
fine  di garantire che la finalita' venga nel concreto perseguita. La
novella  opera,  per i processi in corso al momento della sua entrata
in  vigore,  una  scelta  del  tutto  contraria:  consente infatti il
ricorso  al  rito  speciale in ogni momento, perfino quando sia stato
dichiarato  chiuso  il  dibattimento  e  ci  si trovi gia' in fase di
discussione. Consente, cioe', la riduzione della pena anche a chi non
ha  fatto  risparmiare  alcuna  risorsa  allo  stato,  e  cio' appare
irragionevole  e  contrasta  con  le  finalita' del rito speciale, la
rapida  definizione  del  singolo processo e l'efficienza complessiva
del  sistema  giudiziario penale, oggi costituzionalmente valorizzate
dall'art. 111 Cost.
    Sub  b.  La  sospensione  per  quarantacinque giorni del processo
contrasta, ad avviso del giudicante, con l'art. 111 appena richiamato
oltre che, sotto diverso profilo, con l'art. 3 Cost. Il contrasto con
il  principio  della ragionevole durata del processo appare chiaro se
si  da'  della  riformata  norma costituzionale una lettura che abbia
riguardo  non solo all'interesse di ogni singolo imputato, ma anche a
quello  di  tutte  le  altre  parti  processuali,  dello  stato e dei
cittadini  in  generale.  Infatti,  se  la  speditezza processuale si
intende  come  forma  di tutela del singolo imputato, la richiesta di
rito   alternativo   avanzata   nel  corso  di  un  processo  in  cui
l'istruttoria  dibattimentale  sia  iniziata o addirittura terminata,
non incontra ostacoli nell'art. 111 Cost., dal momento che il singolo
imputato,  a seconda dei casi, ha interesse ad un processo piu' lungo
nella  speranza della prescrizione del reato o piu' breve, attraverso
riti  alternativi,  quando  la  prescrizione  sia ancora lontana. Per
dimostrare, invece, che la ragionevole durata va commisurata anche ad
altri interessi, si impongono alcune considerazioni.
    In  primo  luogo  si  osserva  che  nell'attuale sistema i poteri
decisori  del  giudice  sono  stati  ampiamente  ridotti in favore di
quelli  delle  parti. Ogni volta che sia disposta la rinnovazione del
dibattimento, l'istruttoria dibattimentale deve ricominciare da capo,
salvo nel caso in cui le parti prestino il consenso alla lettura. Nel
caso,  percio',  di  un  processo  con piu' imputati, di cui solo uno
chieda  la  sospensione  del  processo,  ai sensi dell'art. 5 comma 2
della legge 134 citata, e successivamente chieda l'applicazione della
pena,  il  giudice  deve,  innanzitutto,  stabilire  se proseguire il
processo  nei  confronti dei coimputati, stralciando la posizione del
richiedente,   opzione   che   sembra  la  piu'  corretta  alla  luce
dell'attuale  formulazione  dell'art. 18  lett. b c.p.p., ma che puo'
rivelarsi poi inutile, se il rito alternativo non viene concretamente
richiesto,con dispendio di energie e di attivita' processuali; oppure
se,   anziche'   sospendere  il  processo  anche  nei  confronti  dei
coimputati, rinviarlo in attesa del decorso dei quarantacinque giorni
prescritti.   In  quest'ultimo  caso,  se  l'interessato  poi  chiede
l'applicazione  della  pena,  l'accoglimento  dell'istanza  rende  il
giudice  incompatibile  a  giudicare  gli altri coimputati, mentre il
rigetto della richiesta lo rende ugualmente incompatibile a giudicare
l'imputato:  in  ogni  caso,  quindi,  il  processo, per la parte che
prosegue  con  rito ordinario, deve iniziare ex novo innanzi ad altro
giudice,  con  rinnovazione  dell'istruttoria  dibattimentale. In tal
caso non vi e' speditezza processuale ne' per l'interessato ne' per i
coimputati,  ma,  al  contrario,  una  dilatazione  dei  tempi  della
decisione.  La  cosa e' particolarmente evidente quando l'istruttoria
e' gia' esaurita: ad una decisione con rito ordinario ormai certa nel
tempo,  si sostituisce un'attivita' interlocutoria di sospensione che
potrebbe  concludersi  con il rigetto della richiesta di applicazione
della pena e con la necessita' di iniziare nuovamente il processo con
rito ordinario.
    Il  giudicante  non  ignora  che  la  corte  costituzionale,  con
sentenza n. 266 del 1992, ha affermato che «l'applicazione della pena
concordata  con  il  pubblico ministero da uno solo degli imputati di
concorso  nel  medesimo  reato costituisce un procedimento congegnato
come pattuizione tra imputato richiedente e parte pubblica, in ordine
al  quale  e'  previsto  un controllo giurisdizionale che non include
pero'  la  valutazione delle posizioni dei coimputati». La questione,
tuttavia,  era  stata esaminata solo con riferimento all'art. 3 Cost.
ed   inoltre  era  relativa  ad  una  disposizione  ordinaria  e  non
all'introduzione   di   una   norma  transitoria,  come  quella  oggi
denunciata,  che  mira ad applicare l'istituto a tutti i procedimenti
in  corso,  anche  se  in  fase  dibattimentale,  sicche' quella oggi
sollevata  e'  questione  nuova e diversa. Inoltre la sentenza citata
era antecedente alla riforma dell'art. 111 Cost.
    Si  osserva,  ancora, che, nel caso di applicazione della pena in
corso  di  giudizio,  l'esercizio  del  diritto di azione della parte
civile  costituita,  garantito  dall'art. 24  Cost.,  viene oltremodo
sacrificato,  giacche'  tutta  l'attivita'  processuale  fino  a quel
momento  svolta  si  vanifica  nel  merito  e  puo' portare solo alla
condanna  alle  spese,  in forza della sentenza n. 443 del 1990 della
corte  costituzionale.  E  se  e'  vero che il giudice delle leggi ha
risolto   nel   limitato   senso   indicato   il   problema  relativo
all'esclusione della parte civile nel rito de quo, e' anche vero che,
di  nuovo,  la  decisione  si  riferiva  al  sistema  «ordinario»  di
applicazione  della  pena e non ad una norma transitoria, come quella
in  esame,  che interviene a disciplinare un giudizio in corso in cui
la  parte civile sta gia' esercitando o addirittura ha gia' del tutto
esercitato  il  proprio  diritto  di azione. Sicche' anche sotto tale
aspetto  la  frustrazione  dei  diritti  della  parte  civile e della
ragionevole  durata  -  anche  per essa - del processo finisce con il
violare   i  principi  di  ragionevolezza  e  di  ragionevole  durata
stabiliti dagli artt. 3 e 111 Cost.
    In  forza  di  quanto  osservato  l'interpretazione dell'art. 111
Cost.  che  collega  il  principio  della  ragionevole  durata non ai
contingenti  interessi dell'imputato, ma a quello della collettivita'
appare  maggiormente  fondata. Ancor di piu' tale lettura si avvalora
alla  luce  della  produzione  legislativa  che ha fatto seguito alla
modifica  della  norma  costituzionale.  Si consideri che la legge 24
marzo  2001,  n. 89,  che  consente  alle  parti  un'equa riparazione
allorche'   il   processo   abbia   avuto   una   durata   eccessiva,
indipendentemente    dalle   ragioni   che   l'abbiano   determinata,
attribuisce il diritto all'equa riparazione non solo all'imputato, ma
anche  alla parte civile. Da cio' si evince che la ragionevole durata
del  processo  non  e'  un diritto solo dell'imputato, ma anche delle
altre  parti  processuali,  ivi  compresa  la  parte  civile,  il che
costituisce chiaro indice della sua natura di principio generale, non
di  mera forma di tutela di una parte. Una norma, quale quella di cui
si  discute,  che consente all'imputato di dilazionare ad libitum per
ben  quarantacinque  giorni  il  giudizio,  senza  alcuna conseguenza
negativa  in caso di mancato ricorso al patteggiamento, ad avviso del
giudicante   stride  in  maniera  evidente  con  il  principio  della
ragionevole  durata  del  processo  letto  come interesse dell'intera
collettivita'.
    Il  contrasto  appare  poi  ancor  piu'  chiaro,  ed  assai  poco
ragionevole  la  disciplina  della  novella, con ulteriore violazione
dell'art. 3  Cost.,  in  relazione  alla  decorrenza  del termine per
richiedere  la  sospensione  del  processo dalla prima udienza utile,
anziche'  dalla  pubblicazione  della  legge.  Sotto  tale profilo si
osserva che ogni cittadino e' tenuto a conoscere le leggi pubblicate.
Pertanto ogni imputato e' stato posto in grado, nel momento in cui la
legge  in  esame  e'  stata pubblicata, di valutare l'opportunita' di
avvalersi  della pena concordata, tanto piu' se si considera che ogni
imputato  e'  assistito  da  un  difensore,  sicche' ha avuto modo di
consultarsi con questi per valutare l'opportunita' di avvalersi della
pena  concordata.  La  concessione  di un termine di durata notevole,
decorrente  dalla  prima  udienza anziche' dalla vigenza della legge,
appare  irragionevole. Tale irragionevolezza appare di tutta evidenza
allorche'  la  fase  istruttoria  sia  esaurita  o  il  processo  sia
addirittura  in  fase  di  discussione,  e,  quindi, l'imputato abbia
potuto  valutare tutto il materiale probatorio e rendersi conto della
convenienza  eventuale di concordare la pena. Una volta accertato che
il  rapporto  esistente tra imputato e difensore consente ad entrambi
di valutare momento per momento le opportunita' di scelte processuali
e  che, dunque, non v' e' lesione del diritto di difesa ammettere che
l'imputato,  alla  prima  udienza  utile, debba dichiarare se intende
patteggiare  o no, anziche' chiedere un lungo termine di riflessione,
deve  ritenersi  che la sospensione obbligatoria incida - si passi il
bisticcio  - irragionevolmente sulla ragionevole durata del processo.
Nel   bilanciamento   tra  l'interesse  dell'imputato  e  l'interesse
generale  alla ragionevole durata del processo sembra debba prevalere
quest'ultimo.
    Ancora,  lo  spatium  deliberandi  obbligatorio  appare  istituto
nuovo, quantomeno nell'ambito del processo penale, e contrastante con
le soluzioni adottate anche di recente dal legislatore: si consideri,
ad esempio, che la legge 25 giugno 1999, n. 205, che ha introdotto la
procedibilita'  a  querela  per  il  reato di furto, nella disciplina
transitoria  dell'esercizio  del  diritto  di  querela  per  i  reati
commessi  prima  dell'entrata  in  vigore  della legge stessa, di cui
all'art. 19,  non  ha  previsto,  per  i  processi  pendenti,  alcuna
sospensione  automatica  del  processo  per  un  tempo  necessario  a
decidere  se  proporre  querela,  ma  solo un obbligo di informazione
della  persona  offesa  circa la facolta' di esercitare il diritto di
querela  e  la  decorrenza  del  termine di cui all'art. 124 c.p. dal
momento  in  cui veniva ricevuta l'informazione che, se l'interessato
era presente all'udienza, si identificava con l'udienza stessa. Per i
processi  relativi  a  fatti  anteriori  all'entrata  in vigore della
legge,  iniziati  successivamente  all'entrata  in  vigore stessa, la
legge  -  in  coerenza  con l'obbligo di conoscenza delle norme - non
prevedeva  invece  alcuna  informazione  ed  il  termine per proporre
querela decorreva dall'entrata in vigore della legge. La norma che si
denuncia  ha  invece  operato  scelte  diverse  senza  alcuna ragione
apparente   o   cogente,  ma  -  sembra  di  capire  -  per  mero  ed
ingiustificato favor nei confronti degli autori anche di gravi reati.
    In punto di rilevanza si osserva che, pur non essendovi in questo
processo  altri  imputati  o  parti  civili  la cui posizione sarebbe
pregiudicata,  nondimeno  il  giudicante  dovrebbe oggi sospendere il
processo  per  consentire all'imputato di decidere se avvalersi della
novella,  e cio' comporterebbe l'applicazione diretta al caso portato
al  suo  esame  di  una  norma  la cui costituzionalita' e' dubbia in
generale,  essendo  quelle  relative alle posizioni di altri soggetti
processuali  solo  delle argomentazioni volte a dimostrare la portata
generale   del  principio  della  ragionevole  durata  del  processo,
applicazione  che  inciderebbe  sulla  ragionevole  durata  di questo
processo.